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lunedì 13 aprile 2015

Tanking In NBA: Perdere Di Proposito

Il Tanking(tradotto impropriamente come "perdere apposta") è antico quanto la NBA: è infatti sempre successo che alcune squadre traballanti prendessero una provvidenziale imbarcata in vista di un draft particolarmente appetitoso.
Oggi la lottery viene additata come la causa del Tanking, ma in realtà venne introdotta proprio (nel 1985) per evitare che si ripetesse lo spettacolo offerto da Houston nel corso del 1983-84, quando i Rockets erano ormai decisi a toccare il fondo e a riemergere con Akeem Olajuwon o, in alternativa, Michael Jordan.
La radicata convinzione è che, per vincere un titolo NBA, serva passare per il draft, e quindi che, per diventare fortissimi, sia inevitabile passare per un periodo di vacche magre.
Così, i fans accettano di buon grado stagioni magre in attesa del gran colpo.


COME FUNZIONA LA DRAFT LOTTERY
Il sistema statistico che regola l’assegnazione delle “palline” nella Draft Lottery risale all’estate del 1990 e, per una curiosa ironia della sorte, fu concepito per annientare lo stesso fenomeno che ha fatto risvegliare nelle ultime stagioni: il Tanking.
Quando la peggior franchigia della Lega aveva la garanzia di scegliere per prima e l’ordine delle chiamate più importanti ribaltava la classifica della stagione, gli incentivi alle débacle di fine stagione erano particolarmente accattivanti; fino ai tardi anni Ottanta i comportamenti antisportivi riguardavano un numero ristretto di partite poiché la profonda cultura sportiva americana aveva mantenuto vivi gli anticorpi del sistema e il minor numero di squadre rendeva più frequenti e vibranti le rivalità regionali.
L’allargamento della Lega e della sua formula ha provocato un peggioramento della qualità dei bassifondi e ha indotto Stern a vagliare la Draft Lottery: dall’estate 1990, la peggior squadra dell’anno ha avuto il 25% di possibilità di ottenere la prima scelta assoluta e ha ricevuto la garanzia di non scendere al di sotto della quarta chiamata, mentre la penultima si è attestata al 19,9% delle palline presenti nell’urna.
Il 15,6% della terzultima proseguiva la discesa verso la prima esclusa dai Playoffs. Negli ultimi anni, le nuove recrudescenze del tanking hanno riaperto il dibattito sull’eticità della Lotteria e hanno portato all’elaborazione di una proposta di riforma del sistema: il testo definitivo ha affidato alle quattro cenerentole della stagione il 12% di chance di ottenere il #1 e ha fatto calare di pochi decimi le opportunità della quintultima e della sestultima, relegando al #7 la garanzia minima legata al record peggiore dell’anno.


PRIME SCELTE
Negli ultimi trent’anni, alcune prime scelte si sono rivelate giocatori vincenti, da Akeem Olajuwon (2 titoli vinti con Houston), a David Robinson (anche lui a quota 2), passando per S.O'Neill (4 titoli), Tim Duncan (ben 5 anelli) e LeBron James.
O ancora Pat Ewing, Chris Webber, Allen Iverson tutta gente che non ha conquistato l’agognato anello ma che qualcosina ha fatto vedere.
Come dimenticare poi le scelte più recenti, da Derrick Rose a Blake Griffin, John Wall, Anthony Davis e Kyrie Irving (stelle che hanno dinanzi anni per tentare l’assalto alle Finali NBA).
È indubbio che, in generale, chi sceglie per primo rimedia ottimi giocatori.
Uno dei più selvaggi, da questo punto di vista, fu quello del 2003 (James, Bosh, etc).


MA E' SEMPRE LA STRATEGIA VINCENTE?
Così, molte squadre si lanciano entusiaste in operazioni di Tanking più o meno dichiarato, sebbene, in realtà, non ci siano prove del fatto che “ricostruire” sia la strategia migliore per vincere.
Quattro anni dopo aver scelto con una top-3 pick, solo il 31% delle squadre fa i Playoffs.
Dal 1976, 51 squadre hanno chiuso con meno di venti vittorie, e di queste, solo una ha vinto il titolo nei cinque anni successivi: si tratta dei Miami Heat (2007-08) dei Big Three, che però non passarono per il draft, ma per la firma di LeBron James e Chris Bosh.
Dal 1985 a oggi, solamente due formazioni hanno vinto il titolo NBA con meno del 66% di vittorie in regular season.
Dal 1985 a oggi, il 90% delle franchigie che hanno vinto meno di 25 partite in una stagione non hanno raggiunto le fatidiche 54 vittorie nel giro di cinque anni.
Insomma il trend è abbastanza chiaro: le pessime squadre tendono a rimanere tali, anche dopo aver scelto alto al draft.
Entro la scadenza del contratto da rookie della propria stella, bisogna aver fatto qualcosa per convincerla a ri-firmare, pena, vederla partire altrove, ma non è facile costruire una formazione d’alto livello in poche stagioni e lo è ancora meno se ci si è sbarazzati di tutti quei buoni giocatori che avrebbero reso impossibile il Tanking “programmato”.
Dal 1985 ad oggi, solo gli Spurs hanno vinto con in squadra una propria prima scelta assoluta (ne avevano due, Robinson e Duncan).
Tutte le altre grandi prime scelte, da Ewing a Webber, da LeBron a O’Neal, o non hanno vinto, oppure per farlo hanno cambiato maglia.
Per giunta, gli Spurs arrivarono alla prima scelta del 1997 in modo anomalo, a seguito degli infortuni che falcidiarono un roster eccellente, che, recuperati tutti gli effettivi, nel giro di due anni vinse il titolo NBA.
È vero che senza una superstar è quasi impossibile pensare di celebrare un titolo NBA, ma non basta avere in squadra un futuro Hall-of-Famer per garantirsi il successo, e non è detto che per selezionarlo occorra la prima scelta.


L'ESPERIMENTO SCIENTIFICO A PHILADELPHIA: SAM HINKIE
Sam Hinkie(GM dei 76ers), brillante laureato della Business School di Stanford, dice che quello dei 76ers è un “esperimento scientifico”.
L’idea è chiaramente quella di accumulare talento, liberare spazio salariale (da usare per assorbire contratti che gli altri non gradiscono, come quello di JaVale McGee, ottenendo in cambio altre scelte) per poi compiere una selezione.
Quindi ha ceduto i giocatori che potevano valere qualche vittoria nell’immediato, come Holiday, Thaddeus Young, Spencer Hawes, Evan Turner, e, ora anche Michael Carter-Williams.
Intanto, Hinkie ha riempito lo staff di Phila di matematici, esperti di scienze cognitive, statistici e anche un Navy SEAL. Il nuovo management analizza tutto, addirittura monitora le ore di sonno dei giocatori, e grazie a Lance Pearson e Vance Walberg, ha implementato una “effort chart”, che misura ogni azione di ogni Sixier secondo una serie di parametri, una versione più specializzata della tecnologia EPV.
Brown e il front-office non incoraggiano i giocatori a perdere, ma è palese che abbiano costruito una squadra che non può vincere.
Tankare in modo scientifico può funzionare?
Esiste un (parziale) precedente a quello che stanno facendo i Sixiers, ed è rappresentato dai Boston Celtics di Danny Ainge; nel 2007, i bianco-verdi avevano accumulato draft-picks, pur trattenendo Paul Pierce. Scambiarono Jeff Green con Ray Allen, e poi impacchettarono un po’ di “talento” (tra cui Al Jefferson, ma anche parecchio ciarpame) in direzione Minneapolis e portarono Kevin Garnett in Massachusetts.
Nel 2013 Hinkie si presentò al colloquio con la proprietà dei Sixers armato di grafici che mostravano quel che avevano appena fatto gli Houston Rockets, ammassando scelte, apparentemente preparandosi a tankare, salvo poi virare bruscamente e usarle per cogliere l’opportunità di ottenere James Harden.
Philadelphia è strategicamente collocata in modo tale da poter fare razzia di tutti i giocatori che riterrà interessanti nelle prossime tre stagioni, incluse molte scommesse al secondo giro.
Il ciclo (scambiare giocatori in cambio di scelte) continuerà finché Hinkie non riterrà di aver trovato i giocatori dai quali ripartire.
L’idea ha del merito teorico, ma non è scontato che poi si traduca in un titolo NBA, perché Phila sta perseguendo il proprio modello gestionale in modo estremo, come visto alla trade deadline, quando Hinkie si è sbarazzato di alcuni dei giocatori migliori in cambio di altre scelte.
Quello che sta facendo Philadelphia mira a garantirsi scelte, ma, ammesso e non concesso che si traducano in un fenomeno, manca tutto il resto.
I Celtics del 2007 si sbarazzarono dei giocatori che avevano allevato a pane e sconfitte spendendoli ai T-Wolves in cambio di Kevin Garnett.
Hinkie invece se ne sta liberando in cambio di altre scelte, ma così facendo, quando Philadelphia metterà le mani sui giocatori che vuole veramente, sarà di fatto una expansion-team, oppure una squadra imbottita di giocatori assuefatti alle sconfitte.
La lista di buoni giocatori dei quali Philadelphia si è sbarazzata inizia ad essere lunga.
In fondo, i 76ers avrebbero potuto scegliere Giannis Antetokounmpo anziché Carter-Willams, e nel 2014 hanno selezionato Joel Embiid, che è fermo per problemi alla schiena.
Forse Embiid è davvero il nuovo Olajuwon, ma potrebbe benissimo rivelarsi il nuovo Olowokandi, e in tal caso, i Sixers avrebbero solo sprecato tempo e due scelte.
Hinkie è uno scout infaticabile, quindi è possibile che, ragionando sui grandi numeri, faccia buon uso delle scelte che sta accatastando, ma la storia NBA è piena di squadre con roster fantastici che non hanno vinto, come i Blazers del 2000, i Kings del 2002-03, i Lakers del 2004.
Inoltre, come detto, scovare il fuoriclasse è solo l’inizio: gli Orlando Magic pensavano d’aver davanti anni e anni per provare a vincere con Shaquille O’Neal, e si ritrovarono con il cerino in mano; i Cleveland Cavs pensavano che LeBron li avrebbe aiutati a vincere finalmente qualcosa, e invece James si trasferì a South Beach.
Persino Sam Presti non dorme sonni tranquilli a causa dell’approssimarsi della scadenza contrattuale di Kevin Durant.
I 76ers sembrano intenzionati a continuare così finché non avranno agguantato l’ambito fenomeno, ma potrebbero volerci anni e anni, durante i quali si costringe l’abbonato a guardare una squadra indegna, in cui militano giocatori che domani potrebbero essere altrove.
A Philadelphia vendono merchandising che recita uno slogan spiritoso: “Avevo un sogno, ma Hinkie l’ha scambiato per una seconda scelta“.
Nessuna lega professionistica dovrebbe mai creare degli incentivi a perdere.

“L’idea di assegnare le scelte in senso opposto al record, per quanto possa suonare moralmente giusto, crea danni al gioco, che non sono immediatamente visibili. Non si può costruire un sistema che premi le sconfitte. Gli economisti se ne preoccupano continuamente, in termini di moral hazard, e cioè l’idea che se assicuri qualcuno contro il rischio, questi diverrà più propenso a prendere decisioni rischiose. Se salvi le banche quando prendono decisioni rischiose e fanno scelte stupide, continueranno a farlo; se mi dai una scelta in lottery per essere stato un GM atroce, dov’è il mio incentivo a non essere un GM atroce?”.

Posto che i 76ers (oppure i Jazz, i Lakers, Boston e i Knicks) rispettano le regole, è evidente che programmare sconfitte va a detrimento della competitività della NBA e della qualità del prodotto.
Le regole attuali incoraggiano quello che gli americani chiamano bottom-out, cioè toccare il fondo.
Anche se la riunione autunnale dei proprietari non ha raccolto i voti necessari per rivedere il meccanismo della lottery, nelle alte sfere dell’Olympic Tower imperversa il dibattito su come eliminare il tanking.
Una delle proposte consiste nel ruotare la prima scelta assoluta tra tutte le trenta franchigie, prescindendo dal record.
Altri invece propugnano una serie di correttivi che alterino le probabilità, oppure un meccanismo più simile alla free-agency, ma con dei limiti all’ammontare dei contratti.


SUPERSTIZIONE
Attorno alla Draft Lottery, negli anni si è sviluppato anche il fenomeno superstizione, con ogni rappresentante di franchigia che ha il proprio portafortuna.
Una “tradizione” nata già nel 1985, alla prima apparizione dell’urna, con Dave DeBusschere che conquistò la 1° scelta assoluta che portò Patrick Ewing ai Knicks grazie ad un ferro di cavallo.
Tra le più note, la palla di cristallo irlandese con cui si presentò Pat Croce al draft 1996 che gli regalò Allen Iverson, o la toccante storia di Nick Gilbert, figlio del Dan proprietario dei Cavaliers e afflitto da una rara malattia, che negli ultimi tre anni ha portato a casa due first pick (2011 e 2013).
Ma c’è anche il rovescio della medaglia: nel 1992 l’eccentrico Donald Carter, allora proprietario dei Mavericks, si presentò con l’inseparabile cappello da cowboy e una pietra portafortuna, con inciso il nome Shaquille in lingua braille. Peccato che la fece toccare anche a Pat Williams, gm degli Orlando Magic.


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