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giovedì 16 maggio 2013

Confessione Di Lance Armstrong (Intervista Italiano Oprah)

L'intervista integrale condotta da Oprah Winfrey a Lance Armstrong nel tuo talk show, sull'utilizzo da parte di sostanza vietate del texano nella sua carriera.

Rispondi si o no. Hai mai preso sostanze proibite per migliorare le tue prestazioni? "Sì".

Epo? "Sì".

Emotrasfusioni? "Sì".

Altre, come il testosterone? "Sì".

In tutti i tuoi sette Tour vincenti avevi preso sostanze? "Sì".

Pensi sia possibile vincere sette volte di fila il Tour senza doparsi? "No, non penso. Non in questa generazione ciclistica. Non ho inventato io questa cultura. Ma non ho fatto nulla per fermarla".

Per 13 anni non hai semplicemente negato il doping, ti sei ostinato a respingere sfacciatamente tutto quello che hai appena ammesso. Perché? "Questa è la domanda più azzeccata e la più logica. Ma non so se so rispondere. La maggior parte delle persone penserà che sia troppo tardi. E probabilmente ha ragione. E' tutta colpa mia. E' stata una grande menzogna che ho ripetuto tantissime volte".

Eri sfacciatamente convinto delle tue posizioni, davi dei bugiardi agli altri. "Lo so, me ne rendo conto. La verità è che tutta questa cosa era un'immagine costruita, una storia perfetta, quella dell'eroe che sconfigge il cancro, vince sette Tour de France, ha un matrimonio perfetto ed è padre di famiglia. Mi sono perso in questa immagine. Sicuramente altri avrebbero potuto gestirla, ma io non sono stato in grado. Era tutto falso".

Mi hai detto prima che non è possibile vincere senza doping. "Si e lo ripeto. Non è possibile, almeno in questa generazione, non voglio parlare di altri tempi. Come dicevo non ho inventato questa cultura ma non ho fatto nulla per fermarla e questa è una mia colpa, di questo mi devo scusare. Perché tutto lo sport paga le conseguenze del mio comportamento. Comunque non è vero che avevo accesso a sostanze che non erano disponibili per gli altri".

Il report di 164 pagine diffuso dall’Usada dice che tu e la US Postal avevate messo a punto il più sofisticato sistema di dopaggio mai visto. È così? "Non credo. Era certamente professionale, era decisamente intelligente, se così si può definire, ma era molto conservativo. Non volevamo prendere rischi, sapevamo di che cosa si trattava, veniva messo a punto di gara in gara. Ma dire che il nostro programma era più grande di quello della Germania Est degli anni Settanta e Ottanta mi pare esagerato".

Ma com’era questa cultura? Ce lo puoi spiegare? "Io non voglio accusare nessun altro, non voglio parlare di nessun altro. Ci sono gli errori figli delle mie decisioni e sono qui per parlarne e chiedere scusa. La cultura era quella che era".

Si dopavano tutti? Questo è quello che abbiamo sentito. Lo facevano tutti? "Non so se tutti, non vivevo né mi allenavo con tutti. Posso dire questo: c’era gente che mi diceva che su 200 ciclisti del circuito ce n’erano forse cinque che non si dopavano, cinque eroi insomma, che avevano ragione".

Come ti dopavi? Spiegami. Pillole, sangue, frigoriferi segreti, come funzionava? "Era molto semplice, c’erano dei sistemi di ossigenazione del sangue. Il mio cocktail dopante era fatto di EPO, ma non troppo, trasfusioni e testosterone".

Temevi di essere trovato positivo? Nel 1999 non esisteva neppure un test per l’EPO. "No. Ora i controlli si sono evoluti. Ma una volta non ti piombavano in casa e non esistevano controlli lontano dalle competizioni per cui la possibilità di essere trovati positivi era minima perché prima delle gare facevi un lavoro di pulizia per risultare inattaccabile. Era tutta questione di programmare con cura le cose. Io non sono un fan dell’Uci ma devo dire che l’introduzione del passaporto biologico ha funzionato. Ne sto pagando il prezzo e me lo merito. Il mio desiderio era di vincere a tutti i costi e ho pagato le conseguenze della mia ambizione e della mia arroganza".

Quando ti sei piazzato terzo, nel 2009, eri dopato? "No, l’ultima volta che mi sonmo dopato è stato nel 2005".

Quindi non avevi fatto trasfusioni sanguigne e non avevi assunto sostanze nel 2009 e nel 2010? "Assolutamente no".

Eri tu il capo anche per quanto riguarda il doping? "Io ero il ciclista più forte, il leader della squadra".

Se qualcuno faceva qualcosa che a te non era gradito lo potevi licenziare? "No. Forse avrei potuto ma non l’ho mai fatto. Ero il leader della squadra e in quanto tale davo l’esempio. Non c’è mai stato un ordine diretto, eravamo tutti uomini e facevamo le nostre scelte. C’erano compagni di squadra che non si dopavano".

Un tuo ex compagno di squadra, Christian Vande Velde, ha detto all’Usada che tu avevi minacciato di buttarlo fuori se non si fosse conformato a quelle che erano le pratiche della squadra. "Questo non è vero. C’era un livello di competitività da soddisfare. Volevamo dei ragazzi che fossero in grado di gareggiare ad un certo livello. L’unica cosa che ci interessava era quella ma non è mai successo che io spingessi qualcuno a doparsi".

Eri un prepotente? "Si, ero un prepotente. Nel senso che pretendevo di avere sempre sotto controllo la situazione e se qualcuno diceva qualcosa che a me non piaceva gli rispondevo".

È nella tua natura di partire all’attacco quando qualcuno dice qualcosa che a te non va bene. È sempre stato così, fin da quando eri bambino? "Si, da sempre. Però prima della diagnosi del cancro ero un concorrente che non si tirava indietro. Però il cancro mi ha trasformato in un vero combattente, qualcosa di buono in fin dei conti. Solo che ho portato questa filosofia del vincere a tutti i costi anche nel ciclismo e questo non è stato positivo".

Quanto era importante vincere per te e cosa intendi quando dici che eri disposto a fare qualsiasi cosa per vincere? "Esattamente fare ogni cosa per vincere. Ripeto, quando mi hanno diagnosticato la malattia mi sono detto che avrei fatto di tutto per batterla. Ho portato questa attitudine nel ciclismo e questo è stato un male. Certo, mi dopavo anche prima, ma non ero così prepotente".

Per continuare a vincere eri disposto ad assumere sostanze vietate in modo continuativo. Era una pratica comune? "Si, e non sono sicuro che questa sia una risposta accettabile, ma il doping per noi era come mettere l’aria nelle gomme o l’acqua nelle nostre borracce. Si trattava, a mio modo di vedere, di qualcosa che faceva parte del nostro lavoro".

Quando ripensi a questo ti senti in imbarazzo, ti vergogni, come ti senti? "Questa è la seconda volta nella mia vita in cui non sono padrone della situazione. La prima è stata con la malattia. La cosa che fa impressione riguardo ai sette Tour de France vinti è che io sapevo già che avrei vinto".

C’era felicità nel vincere sapendo che lo stavi facendo grazie a delle sostanze dopanti? "C’era più felicità nel processo che portava alla vittoria, nella preparazione, nella messa a punto dell’operazione. La vittoria in sé era quasi scontata".

Non ti sembrava di stare barando nell’assumere sostanze dopanti? "Al tempo no. Mi sento dire che sono un imbroglione, un baro. Ho guardato il significato di queste parole e il vocabolario dice che una persona così è qualcuno che si avvantaggia su in rivale con un metodo scorretto di cui altri non possono disporre. Io la vedo diversamente, credo fosse una battaglia tra pari".

Hai mai offerto doping ai compagni di squadra, hai ma suggerito loro di incontrare il dottor Michele Ferrari? "Ci sono persone in questa storia che hanno fatto degli errori ma non sono dei mostri. Io vedevo il dottore Ferrari come una brava persona e lo penso ancora".

Era lui il capo e l’artefice del programma di doping a te legato? Come definiresti il suo ruolo in questa questione? "No. Ma a me non piace parlare di altra gente".

Cosa puoi dirmi della storia legata ad Emma O'Reilly (massaggiatrice della squadra di Armstrong durante le campagne al Tour de France e una della prime accusatrici, n.d.r.) che ha raccontato di un certificato post datato che ti permetteva di assumere cortisone? "Era come diceva lei".

Cosa ti senti di dire di Emma O'Reilly? L’avevi denunciata? "Emma O'Reilly è una di quelle persone con le quali mi devo scusare. L’abbiamo travolta e maltrattata".

Ma l’hai denunciata? "Ad essere onesti Oprah, abbiamo denunciato tanta di quella gente... Comunque sicuramente sì..."

Quando la gente, e parlo della O’Reilly ma anche di Betsy Andreu (moglie dell’ex compagno di squadra Frankie Andreu, che aveva parlato delle pratiche che erano state portate avanti nel 1996 in un’ospedale dell’Indiana nel periodo in cui Lance era ricoverato, n.d.r.), sollevavano dei dubbi sulla tua condotta tu li hai aggrediti e denunciati anche se sapevi che stavano dicendo la verità. Come la mettiamo? "Quando penso a questo mi rendo conto che c’è gente che non mi crederà mai più. Lo capisco. Uno dei passi del mio processo di scuse è dire semplicemente che io avevo torto e voi ragione".

Hai chiamato Betsy Andreu? Ti ha risposto? "Non abbiamo fatto pace. Era troppo ferita, una telefonata di 40 minuti non può bastare".

Tu a Emma O’Reilly hai dato della "puttana". Come ti senti a pensarci adesso? "Non mi sento per niente bene. Il territorio era minacciato, la mia squadra era minacciata, dovevo reagire e ho reagito ancora una volta attaccando".

Hai ricordato moltissime volte nelle interviste che non hai mai fallito un controllo antidoping. Hai una risposta diversa oggi? "No. Io non ho effettivamente mai fallito un controllo. Retroattivamente posso dire di averne fallito uno, ma da centinaia di controlli sono uscito indenne".

E cosa possiamo dire del Giro di Svizzera del 2001? "Quella storia è falsa. Non ci fu alcun meeting segreto con il responsabile del laboratorio e l’Uci, di cui, ripeto, non sono un fan non fece sparire quel test".

Tu hai fatto una donazione all’Uci e hai detto che quella donazione era per aiutare gli sforzi che si stavano facendo per la lotta al doping. Ovviamente non era così. Perché hai fatto quella donazione? "Non era certo un modo per ricambiare un aiuto ricevuto. Mi avevano chiamato e mi avevano detto che non avevano molti soldi. Io li avevo e quindi mi chiesero una donazione. Io la feci senza avere nulla in cambio".

In molti dicono che il punto di svolta nella tua vicenda è stata la decisione del tuo ex compagno di squadra Floyd Landis di uscire allo scoperto e confessare. "Il mio ritorno non fu ben accetto da Floyd, ecco tutto".

Ti ricordi dove ti trovavi quando hai sentito che Floyd, tuo ex compagno di squadra e protetto, aveva intenzione di parlare? "Mi trovavo in una camera di albergo. Floyd mi scrisse dei messaggi sulla sua intervista. Alla fine gli dissi di fare quello che voleva e lui andò al Wall Street Journal con la sua storia".

Quello fu un momento chiave. Un altro è stato il tuo ritorno. Ti sei pentito di essere tornato? "Si. Non saremmo seduti qui e non fossi tornato".

L’avresti fatta franca se non fossi tornato? "Impossibile da dire. Però c’erano delle possibilità".

Non hai mai pensato che questo giorno sarebbe arrivato? Non hai mai pensato che prima o poi saresti stato scoperto, visto che in tanti sapevano? "Sapevo che questa storia sarebbe andata avanti così per parecchio tempo. Siamo qui perché c’è un’indagine che è aperta da due anni".

Quando l’indagine federale si è conclusa senza esito hai pensato di avercela fatta? Hai creduto di poter respirare, che i lupi si erano allontanati? "A quel punto pensavo di averla fatta franca".

Quale è stata la tua reazione quando ha saputo che l’Usada stava per prendere in mano il caso e aveva intenzione di aprire un’inchiesta su di te? "Il mio istinto è stato quello di combattere. Farei qualunque cosa per poter tornare indietro. Non combatterei, non denuncerei. Ascolterei. Avevano tutte le prove e le testimonianze. Sono arrivati e mi hanno chiesto cosa avessi intenzione di fare. Io avrei dovuto dice che avevo bisogno di tre giorni, di chiamare la mia famiglia, mia mamma, gli sponsor e la fondazione. Mi piacerebbe poter tornare indietro ma purtroppo non posso".

Hai intenzione di cooperare con l’Usada per aiutare a fare pulizia nello sport del ciclismo? "Io amo il ciclismo ma so che la gente mi vede come qualcuno che ha gettato discredito su questo sport e sul colore giallo. Ora mi sento di dire che se ci saranno i presupposti per collaborare, se esisterà una commissione di riconciliazione e potrò farne parte sarò contento e sarò felice di essere il primo a sedermi intorno al tavolo".

Quando hai saputo che il tuo ex compagno di squadra George Hincapie era stato chiamato a testimoniare dall’Usada come ti sei sentito? "Ho capito che il mio destino era segnato. Se George non avesse detto quello che sapeva la gente avrebbe detto che era d’accordo con me. George era il più credibile di tutti, lo conosco da quando aveva 16 anni e siamo ancora grandi amici. George conosce questa storia meglio di chiunque altro".

Ogni articolo che leggo su di te e ogni articolo che ho dovuto scrivere su di te inizia con le parole "In disgrazia". Ti senti in disgrazia? "Certamente, ma mi sento anche umiliato e mi vergogno. Non è piacevole"

Quale è stato il momento più umiliante che ti ha costretto a un esame di coscienza? "Credo il mercoledì in cui mi ha chiamato dalla Nike e mi hanno detto che si ritiravano. E poi hanno chiamato gli altri: Trek, Giro, Anheuser-Bush…"

Nello stesso giorno o in pochi giorni? "Sì, in pochi giorni. Tutti via. Non è stato un bel periodo però a dire il vero non è stato il più umiliante".

E ti ha colpito duro questa cosa? "Sì, certo. Però sapevo che prima o poi saremmo arrivati a questo punto. Stavo perdendo il controllo della situazione, stava accadendo il peggiore dei miei incubi però avevo un luogo della mia mente in cui avevo già immaginato che tutti se ne sarebbero andati. Quello che non mi sarei mai aspettato è quello che è successo con la Fondazione Livestrong. Quello è stato il momento peggiore, il più umiliante. Ricevere la prima telefonata, in cui mi chiedevano di lasciare la presidenza e mettermi da parte era già stato molto duro. Ma alla gente e ai sostenitori non bastava più. E allora è arrivata la seconda telefonata, in cui mi hanno chiesto di lasciare del tutto quello che consideravo un figlio, la Fondazione. Mi hanno proprio detto così: "abbiamo bisogno che lasci". Questo mi ha fatto davvero pensare tanto. Ho sempre considerato la Fondazione come il mio sestogenito e lasciarla è stato molto duro. E’ stata la cosa migliore per l’organizzazione ma mi ha ferito terribilmente. Quello è stato il momento peggiore".

Può Livestrong vivere senza il tuo coinvolgimento? "Spero proprio di sì".

Siccome la tua storia è andata oltre lo sport e ha dato speranza a tanta gente che si è trovata a fronteggiare il cancro, ho con me questa e-mail che mi ha mandato un amico dopo aver saputo che avrei condotto questa intervista con te. Dice: "Ho sentito che è stato un vero coglione, ma io avrò sempre gratitudine per Lance. Mi ha dato speranza in un momento molto difficile. Al mio primogenito era stata appena diagnosticata la leucemia, mancavano due settimane al suo primo compleanno. Ero in terapia intensiva con mio figlio che faceva fatica anche solo a respirare e mio fratello mi fece avere l’ultimo libro di Lance "It’s Not About the Bike" ("Non solo ciclismo. Il mio ritorno alla vita")". Lo lessi dall’inizio alla fine in una sola notte e mi fece capire che c’era speranza per il mio bambino, una speranza non solo di sopravvivere, ma anche di prosperare, di svilupparsi e di diventare grande. Ho fatto una scelta quella notte, su come combattere la malattia di mio figlio e guidarlo, insegnargli come è fatto il mondo e come è fatta la vita. La mia preghiera è per Lance, che mentre sta combattendo i suoi demoni non si scordi che la vita non è solo ciclismo". "Amen".

Stai combattendo i tuoi demoni? "Assolutamente sì. Si tratta di un percorso e siamo solo all’inizio di questo tragitto".

Dal punto di vista finanziario quanto è stata pesante questa vicenda? Hai perso tutto? "Ho certamente perso gli incassi futuri. Pensa al giorno e mezzo in cui la gente (gli sponsor) mi ha lasciato, Mi chiedi il costo. Non mi piace pensare a queste cose però è stato un giorno da 75 milioni di dollari. Tutti andati, in un soffio, senza probabilmente tornare mai più".

Ti ha colpito duramente questa cosa? "Sono stato in un posto buio in cui non sapevo se avrei vissuto un mese, sei mesi, un anno, cinque o dieci. E adesso questo mi aiuta. Questi non sono bei tempi per me, ma non sto vivendo la peggior parte della mia vita. Non puoi comparare questo con la diagnosi di un cancro in fase avanzata. Questo fissa il limite. E’ difficile, certo, ma sono un ottimista e guardo con fiducia al futuro. Ciò che mi ha ferito è che questa vicenda mi ha costretto a guardarmi indietro: è una cosa che non amo fare. Sono come mia madre, non ci piace parlare del passato, non abbiamo mai parlato del mio padre biologico, per esempio".

Però sei tornato al passato (rientrando alle corse) e non credevi che fosse possibile vincere sette Tour de France senza doping. Sei tornato senza avere intenzione di doparti, ma contando di vincere ancora? "Sì, perché ho pensato, e lo penso ancora, che lo sport ora sia molto pulito. Ci fu un rilevante giro di vite nella disciplina quando è stato introdotto il passaporto biologico. Ho ritenuto che si potesse competere alla pari senza doping. Al Tour del 2009 non mi aspettavo di arrivare terzo. Mi aspettavo di vincere come ho sempre fatto, ma alla fine sono stato battuto da due ragazzi più forti di me. Però forse non riesco a fare intendere quello che vorrei dire".

C’era gente a te vicina che sapeva di tutta la questione e voleva che tu smettessi di mentire e di doparti? "Sì". C’era qualcosa che avrebbero potuto fare o dire? "Probabilmente no. Potrei fare un nome: Kristin (ex moglie e madre dei primi tre figli; ndr). Lei è una persona perbene, una persona molto coscienziosa che crede nell’onestà, nell’integrità morale e nella verità. E crede che nella verità si possa trovare la libertà. La vediamo in modo diverso su molte cose, ma abbiamo tre bambini insieme. E loro si meritano la verità e di vedere nel loro padre una persona che dice la verità".

C’è qualcuno che sapeva la verità dall’inizio alla fine? "Sì".

Torniamo a Kristin. Avete mai parlato insieme di smettere o di uscire da questo circolo vizioso? "L’ho vista al parco giochi due giorni fa e le ho chiesto, se queste cose fossero venute fuori, se ne potevo parlare. Lei mi ha detto di sì. Non era così curiosa, forse non voleva proprio conoscere niente anche se sapeva più o meno quello che sarebbe accaduto. Io dal canto mio ho preferito tenerla al riparo da queste vicende. Per quanto riguarda lei, il mio doping e il mio ritorno è lei la persona a cui ho chiesto se lo potevo fare, se potevo tornare a correre. Era una decisione importante, avevo bisogno della sua benedizione. E lei mi disse che potevo farlo ma a una condizione: che non avessi mai più fatto uso di quella roba (le sostanze dopanti e le trasfusioni, ndr). E io glielo ho promesso, assicurandole che non sarei mai venuto meno a quella parola. Era una richiesta seria. La risposta fu seria. Mi ha dato la sua benedizione. Se lei mi avesse detto no, ma non ci voglio neanche pensare, non l’avrei fatto. Ma lei me la diede e quindi ho ripreso".

Tu e Kristin avete tre figli insieme. Cosa dirai a Luke, che ha 13 anni. Hai combattuto contro chi ti accusava di doping tutta la durata della sua vita. Cosa dirai a lui e alle bambine? "Sanno molto loro. Lo sentono in giro che si parla di me. A scuola i loro compagni li hanno aiutati tanto. Perdi il controllo dei figli quando vanno fuori da questi spazi controllati, quando vanno su Instagram, su Facebook, su Twitter…"

Ma quando glielo hai detto? "Prima ti voglio raccontare cosa è successo. Quando tutta questa storia è cominciata, ho visto mio figlio difendermi, dire che quello che gli altri ragazzi gli raccontavano su di me non era vero. In quel momento ho capito che dovevo dirglielo. Lui non mi aveva chiesto niente, non ha mai messo in dubbio che fosse vero quello che gli avevo raccontato. Mi credeva…" (e si commuove per la prima volta).

E che cosa gli hai spiegato? "Lì per lì niente, ma era chiaro che era arrivato il momento di dirgli qualcosa. Ho sentito che mi difendeva, che ci stava male e a quel punto ho capito che la situazione mi stava sfuggendo di mano. Dovevo parlargli e l’ho fatto durante le vacanze di Natale".

Quali parole hai usato? "Gli ho spiegato che c’erano molti dubbi sul suo papà e sulla sua carriera, sul fatto che forse mi ero dopato nonostante avessi sempre negato e avessi controbattuto e attaccato a proposito, come avete visto. Tutto questo ha reso la situazione ancora più triste, ma gli ho detto che purtroppo era tutto vero. Poi c’erano le bambine, che hanno 11 anni, e non hanno avuto molto da ridire. Hanno accettato la questione così com’era. Ho anche detto a Luke di smettere di difendermi, che dicessero quello che volevano".

Come l’ha presa? "E’ stato straordinariamente calmo, risultando decisamente maturo. Gli ho spiegato che se qualcuno gli avesse detto qualcosa su di me non avrebbe dovuto più difendermi, ma solo dire che il suo papà si scusava. Lui mi ha risposto dicendomi che mi voleva bene perché ero suo padre e che non sarebbe cambiato nulla. Mi sarei aspettato dell’altro".

Ti aspettavi odio, distanza, rabbia, delusione? "Grazie a Dio è più simile a Kristin che a me".

Cosa mi dici di tua madre? "Era ed è a pezzi ma non è il tipo che chiama e ti dice che lo è. Mi ha chiamato il mio patrigno dicendomi che stava attraversando un momento terribile. Io ho pensato che lei era una donna forte e che aveva attraversato momenti anche più difficili. Poi ci siamo visti con i bambini e ho visto mia mamma veramente a pezzi. Ho dovuto vederla con i miei occhi per capire che l’avevo veramente ferita".

Un sacco di gente pensa che tu stia facendo questo per poter tornare nel mondo dello sport. "Se mi chiedi se vorrei competere ancora, la mia risposta è certamente sì. Io sono un tipo a cui piace competere, è quello che ho fatto per tutta la mia vita. Mi piace allenarmi, mi piace gareggiare, mi piace arrivare al limite".

Vuoi gareggiare ancora? "Non al Tour de France, ci sono un sacco di altre cose che potrei fare, ma non posso a causa di questa punizione (la squalifica a vita, ndr). Se ci fosse uno spiraglio in questa sanzione mi piacerebbe correre la maratona di Chicago a 50 anni? Mi piacerebbe molto, ma non posso. Non posso competere in nessun evento che è regolato da una federazione. Mi piacerebbe molto avere l’opportunità di gareggiare, però non è questa la ragione per cui sto rilasciando questa intervista. Potrà non essere l’affermazione più gettonata del momento, ma io mi merito di poter gareggiare, magari non subito. Quando però vedi l’entità della punizione… Avrei compreso una punizione di sei mesi, invece io mi ritrovo con una condanna a morte. Non posso competere. Non voglio dire che è scorretto però…".

E tu speri che questa conversazione, le tue ammissioni il fatto di aver detto che avresti voluto fare le cose diversamente con l’Usada, possano convincere i responsabili ad alleggerire la tua squalifica a vita? "Egoisticamente si, ma realisticamente non credo che succederà e credo che dovrò convivere con questa cosa".

Si è fatto un gran parlare su quello che avresti detto. Qual è il tuo intento, qual è la speranza, come pensi di gestire questa situazione? "Il mio intento, che è anche la più grande speranza, è quello di migliorare la condizione dei miei bambini. I più grandi non devono convivere con questo macigno legato alla mia vita. Non è giusto quello che ho fatto a loro. Per quanto riguarda i più piccolini, loro hanno 2 e 3 anni e ovviamente non hanno idea di quello che sta succedendo. Ma lo impareranno. Questa intervista vivrà per sempre così come quello stupido tweet con le maglie gialle lo farà. Dovevo fare la cosa giusta per loro, prima che entrino nella parte principale della loro vita".

Pensi di avere avuto quello che ti meritavi? Per un bel pezzo hai accusato gli altri di condurre una caccia alle streghe nei tuoi confronti. Pensi, considerato quanto sei stato grande e quanto il tuo nome e il tuo brand contavano, che sia giusto quello che ti è stato inflitto? "Certamente meritavo di essere punito. Ma non con la pena di morte".

Quindi ammetti che quel tweet di te con le maglie gialle è stato qualcosa di impertinente, arrogante e cretino? "Certamente, quello è stato un altro errore".

I lupi erano alla porta di casa e tu hai twittato quello. Cosa intendevi dimostrare? "Era un’ulteriore forma di disprezzo. E quello che fa impression è che ho pensato fosse una buona idea..."

Davvero? "Al tempo sì".

Ma dimmi, dopo questa cosa spropositata che è accaduta nella tua vita, come è cambiato il modo di vederti? "Non completamente, ma ovviamente questa situazione è pesante e incasinata e non è che puoi far finta di niente e conviverci dicendo che va tutto bene".

Sei attualmente in cura da un analista? "Sì. Durante il corso della mia vita mi è capitato di tanto in tanto. Solo che un tipo come me non ne avrebbe bisogno solo di tanto in tanto. Ho avuto una vita incasinata, ma niente scuse. Si tratta di un lungo percorso da compiere".

Hai rimorso? C’è del vero rimorso o è più il dispiacere di essere stato "beccato"? "Chiunque venga scoperto è depresso per esserlo stato. Ho appena cominciato il mio percorso e questo provocherà altri effetti onda. La gente presto sentirà cose ancora differenti. Se ho rimorsi? Assolutamente sì. Se aumenteranno? Assolutamente sì. Questo è il primo passo e queste sono le azioni che sto facendo. Sto pagando un prezzo alto, ma me lo merito".

Credi di dovere delle scuse al giornalista del Sunday Times, David Walsh? "Questa è una buona domanda".

Credi di dovergli delle scuse per una storia che segue da 13 anni e che ha scritto sul Times? Lui adesso ha scritto un libro sulla tua vicenda e su tutto quello che è accaduto. "Mi scuso con David".

Cosa ti senti di dire alla donna che ha scritto l’e-mail che ho letto prima e a quei milioni di persone colpite dal cancro che credevano in te? "Posso dirle che comprendo la loro rabbia e il loro sentirsi traditi. Mi avete sempre sostenuto attraverso tante traversie e io vi ho mentito. Mi dispiace sinceramente e farò di tutto per poter fare ammenda".

Riesci a vederti oltre il chiedere scusa? Incominci a renderti conto di come hai rovinato le vite degli altri? "Sì, sì, sì. E non ho bisogno di tornare qui per capire quante cose ho dato per scontate e quanto ho abusato della mia posizione privilegiata… Se uno dei miei figli si comportasse come mi sono comportato io sarei furioso".

Sappiamo tutti che quando una persona è famosa la gente adora vederne l’ascesa, ma si esalta anche a vederla inciampare e cadere. Riuscirai a rialzarti? "Non lo so. Non lo so. Io non so cosa succederà. Sto convivendo bene con questa nuova situazione che in passato mi avrebbe fatto diventare pazzo. Sono qui, la sto vivendo su me stesso e ho bisogno di continuare a farlo. Sono profondamente dispiaciuto per quello che ho fatto, posso dirlo migliaia di volte ma non sarà mai abbastanza per far tornare le cose indietro".

Mercoledì scorso, Travis Tygarty dell’Usada, ha detto alla trasmissione "60 Minutes Sports" che qualcuno del tuo entourage offrì all’Usada una donazione di 150.000 dollari che non venne accettata. Stavi cercando di "comprare" l’Usada? "No. Questo non è vero".

Non è vero? "Non è vero. Nelle 1000 pagine di report che hanno diffuso c’erano un sacco di cose, c’era tutto su di me. Come mai non si diceva niente di quella storia? Come mai? Oprah, non è vero niente". Nessuno che ti rappresentava… "Nessuno. Io non sapevo niente ma ho chiesto a tutti del mio entourage. Nessuno. Non è vero".

E tu sei Lance Armstrong, tu conduci le danze intorno a te e quindi se qualcuno avesse offerto 150.000 dollari tu lo avresti saputo? "Mi pare che si fosse parlato di 250.000, era questo il numero. Ma poi l’hanno abbassato. Sono un sacco di soldi. Lo avrei saputo".

E quindi confermi che non è vero? "Non è vero".

Sei un uomo migliore oggi dopo tutto quello che è successo? Ti ha aiutato tutto questo a diventare una persona diversa? "Senza dubbio, lo ripeto, è una situazione che mi è successa solo due volte nella mia vita. Quando mi è stato diagnosticato il cancro sono stato messo alla prova e sono uscito migliore di come ero. Ora ho perso il controllo della mia vita per la seconda volta. È facile stare qui e dire che mi sento meglio, ma non posso perdere di nuovo la mia vita. Solo io la tengo sotto controllo, però non posso fare promesse. Scivolerò ancora e la sfida principale della mia vita sarà cercare di non scivolare più e di non perdere di vista la strada da percorrere. Una sfida epica".

Una storia epica. Qual è la morale di questa storia? "Non ho una gran risposta in questo caso. Posso guardare a quello che ho fatto, ingannare per vincere gare di ciclismo, mentire su questo, essere prepotente con la gente. Ovviamente queste cose non si devono fare, non è certo quello che vorresti insegnare ai bambini. Questo è facile da dire. Ma c’è un’altra morale di questa storia che vedo riguardando la mia vita, prima in ascesa e poi intrappolato dentro tutte queste questioni: è un crimine tradire le persone che ti supportano e ti sono vicine, è un crimine mentire a loro".

Sai quale penso che sia la morale? E’ quello che ti ha detto Kristin: la verità ti libererà. "Sì, lei me lo continua a dire…".


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